INTRODUZIONE
Il racconto riguarda una epidemia grave verificatasi negli anni 40 appena prima della guerra in una cittadina di 25000 abitanti che si sviluppa sulla pedemontana veneta, in gran parte in territorio pianeggiante, ma con la periferia in collina.
Una piccola parte della cittadinanza viene colpita da un’epidemia di tifo o malattie similari che spesso sono causate da un batterio chiamato salmonella, presente nell’acqua potabile.
Si Precisa che in quei tempi la disinfezione dell’acquedotto, praticato allo scopo di distruggere tutti i batteri presenti nell’acqua, veniva fatta immettendovi, nella giusta percentuale, l’ipoclorito di sodio cioè quel liquido molto usato anche per le pulizie domestiche, chiamato “varechina”.
L’ipoclorito veniva fornito regolarmente da una ditta che lo consegnava in una damigiana, alle date prefissate, direttamente nella sede dell’acquedotto il cui personale provvedeva a immetterlo immediatamente nell’impianto.
Infatti, tutto il personale dell’acquedotto era stato scrupolosamente istruito sull’importanza che rivestiva quella “varechina” in quanto un eventuale errore, come ad esempio quello di immettere nel serbatoio sostanze di altro tipo, avrebbe comportato gravi problemi poiché quella in questione era una sostanza che veniva ingerita dai cittadini. In particolare, era stato imposto che l’incaricato, prima di eseguire l’operazione, doveva annusarla quando era ancora in damigiana poiché aveva un forte odore caratteristico.
DISINFETTANTE ERRATO
Come già accennato, arrivò alla sede dell’acquedotto comunale la solita damigiana di ipoclorito di sodio usato per la disinfezione della rete potabile ma, nonostante all’esterno della damigiana fosse scritto chiaramente ipoclorito di sodio, l’addetto si accorse che l’odore non era sicuramente quello della varechina. Segnalò immediatamente alla direzione il grave disguido, spiegando che la scritta all’esterno della damigiana non corrispondeva al contenuto. La direzione del rivenditore della damigiana confermò che l’errore era appena stato segnalato con un telegramma della ditta fornitrice che informava dello scambio accaduto e precisando che la damigiana conteneva, per un loro errore, acido muriatico cioè un misto di acido cloridrico e solforico da usare solo per le saldature metalliche. La ditta inoltre assicurò che avrebbe provveduto in giornata a fornire la damigiana giusta.
Dopo un paio d’ore avvenne il cambio della damigiana e l’operaio poté immettere nel serbatoio il liquido, dopo aver controllato che si trattava di varechina.
IL TELEGRAMMA INDISCRETO
Occorre far notare al lettore un aspetto interessante di questo fatterello, realmente accaduto, di come sono cambiate le nostre abitudini e perfino le leggi.
Fino a non moltissimi anni fa, la trasmissione di una comunicazione urgente avveniva per mezzo del telegramma, come quello ricevuto dalla direzione suddetta.
Attualmente, i messaggi sia scritti che verbali e perfino anche video si trasmettono con straordinaria facilità. Si fatica a credere che, in un’epoca temporalmente vicina come quella del racconto, si dovesse ricorrere all’alfabeto morse per trasferire un messaggio. Questo voleva dire che l’addetto alla trasmissione doveva azionare un tasto con il quale trasformava ciascuna lettera del messaggio da inviare in punti e linee, secondo le regole dell’alfabeto Morse, mentre colui che lo riceveva vedeva arrivare una strisciolina di carta larga circa un centimetro con una lunga fila di punti e di linee che a sua volta doveva decodificare per ricomporre il testo originale da consegnare al destinatario.
Faccio notare che per inviare un telegramma, c’erano almeno due persone che venivano a conoscenza del suo contenuto.
Ai nostri giorni, le regole sul rispetto della “privacy” vietano a chiunque di leggere i messaggi privati, mentre allora gli addetti del telegrafo dovevano addirittura leggerli, trasformali nel linguaggio Morse e quindi rileggerli per verificare l’assenza di possibili errori.
Tutto questo comporterà, come vedremo, che una notizia imbarazzante, tipo quella di aver consegnato all’ente distributore dell’acqua potabile l’acido muriatico al posto dell’ipoclorito di sodio, possa anche essere diffusa ai quattro venti.
A volte, certi fatti si combinano casualmente con altri avvenimenti formando strane coincidenze che innescano fantasie e sospetti tra la gente.
In questo caso, a qualche settimana di distanza dallo scambio di damigiane, in una zona limitata della città si verificò un’epidemia di tifo. L’ospedale dichiarò che dipendeva da un bacillo probabilmente presente nell’acqua potabile, per cui era necessario un approfondimento per capire la reale provenienza dell’infezione, onde evitarne la diffusione.
L’addetto alle poste che aveva ricevuto quel telegramma, in deroga al suo dovere professionale, di fronte ad un problema tanto grave, non riuscì a star zitto, anzi si sentì in dovere di diffondere la notizia dello scambio delle soluzioni. La cosa fece grande scalpore. I giornali pubblicarono articoli in base ai quali le dichiarazioni dell’ospedale circa la possibilità che l’acqua fosse inquinata, poteva dipendere da un grave errore commesso dallo scambio del disinfettante con il pericolosissimo acido.
Il sindaco inviò alla direzione dell’acquedotto una raccomandata con la quale chiedeva se fosse possibile che, per errore, fosse stata inquinata l’acqua ed eventualmente di dimostrare il contrario. La direzione non ebbe nessuna difficoltà a smentire quanto scritto dai giornali. Venne fornita al sindaco copia del documento rilasciato dalla ditta dell’avvenuta sostituzione della damigiana con altra avente il contenuto adatto, ed inoltre assicurato che il personale non immetteva mai il disinfettante senza prima essersi accertato che fosse ipoclorito di sodio. Oltre a questo, fornì copia delle analisi di potabilità dell’acqua effettuate sia prima che dopo l’epidemia dall’autorità addetta ai controlli prelevando l’acqua in diverse parti della rete idrica.
Le prove fornite furono sufficienti per la salvaguardia ufficiale dell’acquedotto ma non servì a convincere la cittadinanza che le cose non fossero avvenute secondo la versione ufficiale. Si diffuse l’atroce dubbio che la verità fosse tenuta nascosta e non era raro che alle autorità giungessero frasi sibilline che le accusavano di mettere a tacere i problemi, invece di risolverli.
SI DIFFONDE UNA ERRATA NOTIZIA
Si diffuse la convinzione che la causa dell’epidemia restasse del tutto sconosciuta, nonostante la notizia fatta rilevare dall’ospedale che insisteva sulla necessità di scoprire la verità per evitare il diffondersi dell’epidemia.
Il dubbio era dovuto ad un fatto più che accertato: nel locale dove aveva luogo la disinfezione dell’acqua potabile dell’acquedotto, era entrata una damigiana contenente un liquido altamente pericoloso per la salute pubblica e questa era una verità che, se non fosse stato per merito dell’impiegato delle poste, sarebbe rimasta nascosta.
Il sindaco ad un certo punto volle por fine a quella diffusa incertezza che faceva più male di una spiacevole ma palese verità e si convinse che lo poteva ottenere affidando l’incarico ad un esperto investigatore, autorizzato a svolgere le indagini necessarie.
INTERVIENE ARTEMISIO
Artemisio, questo era il nome dell’investigatore, iniziò le sue ricerche dall’ospedale dove gli venne precisato che l’infezione era dovuta ad un batterio chiamato salmonella, che di solito si trova nelle acque della fognatura ma, avendo colpito delle persone di una zona circoscritta, avrebbe potuto benissimo dipendere dall’acqua potabile inquinata. Dopo essersi fatto spiegare esattamente quale fosse la zona colpita dall’epidemia, l’investigatore percorse in lungo e in largo l’intero abitato, constatando che si sviluppava su un terreno pianeggiante, ma confinante con una collina dominata da una casa contadina circondata da un grande vigneto. Il primo pensiero fu che tale area agricola venisse irrigata con le acque dell’acquedotto, non essendoci nessun corso d’acqua nelle vicinanze. Il secondo passo di Artemisio fu quello di chiedere al tecnico dell’acquedotto se esistesse qualche possibilità che in tale zona venisse utilizzato l’acquedotto per usi diversi dal consumo domestico e dal quale sarebbe potuto derivare l’inquinamento. Il tecnico fece le sue ricerche sui consumi d’acqua nella zona concludendo che nessun utente aveva consumi d’acqua potabile eccessivamente elevati, come sarebbe avvenuto se l’avesse utilizzata per irrigare.
A questo punto Artemisio chiese se un privato potesse inquinare l’acquedotto. Il tecnico precisò che il regolamento del servizio idrico prevedeva che chiunque volesse prelevare con proprie pompe quantitativi d’acqua per un uso particolare, doveva farlo previa interruzione con la rete pubblica. Questa consisteva nel riempire, con la pressione dell’acquedotto, una vasca a terra e quindi da questa prelevare l’acqua per usi particolari. In nessun caso era invece ammesso il collegamento diretto tra acquedotto e rete privata munita di apparecchiature idrauliche, come le pompe di sollevamento.
Acquisite queste notizie Artemisio, andò a trovare l’agricoltore del vigneto, qualificandosi e spiegando l’incarico che doveva svolgere. Chiese di poter visitare il vigneto che si trovava una cinquantina di metri più in alto della casa e dimostrò un vero interesse per il bell’impianto. L’agricoltore spiegò quanto lavoro fosse richiesto per ottenere alla fine le botti piene di un buon vino. Per quanto riguarda il problema dell’acqua spiegò che era sufficiente quella che pioveva dal cielo e, negli anni di siccità, si perdeva nella quantità di uva raccolta e quindi di vino, ma si guadagnava nella sua qualità al punto di compensare ampiamente la minor resa.
Quando Artemisio si fece spiegare i problemi da risolvere, gli venne raccontato che per debellare una malattia delle viti chiamata peronospora, usava aspergere le viti con verderame e cioè con un liquido ottenuto sciogliendo in acqua il solfato di rame. Fu questa l’occasione per chiedergli come faceva con l’acqua necessaria per la formazione del verderame. Artemisio fu allora condotto nella parte più alta del vigneto dove si trovava una vasca in calcestruzzo che veniva riempita di acqua dell’acquedotto tramite una elettropompa. Artemisio lasciò cadere la cosa, interessandosi piuttosto della modalità di aspersione del verderame. Il contadino fu contento di mostrargli la pompa a mano che usava caricandosela sulla schiena a mo’ di zaino. Si fece poi spiegare come avveniva il riempimento del serbatoio e venne a sapere che avveniva piano piano con prelievi d’acqua di modesta portata, sfruttando la maggior pressione che l’acquedotto aveva durante le ore notturne. In quel modo egli riusciva a riempire lentamente la vasca prima dell’utilizzo. A quel punto Artemisio azzardò una domanda: “durante il periodo in cui la vasca restava per giorni e giorni piena d’acqua, gli era mai capitato di trovarla vuota?”. “La cosa, inspiegabilmente, in realtà accadde una volta”, fu la risposta.
Artemisio non aveva bisogno d’altro. Il giorno dopo spiegò al tecnico dell’acquedotto la vicenda di quella vasca il cui riempimento aveva luogo in totale dispregio del regolamento. L’investigatore disse di aver capito che la separazione idraulica tra rete dell’acquedotto e condotta privata di riempimento della vasca situata in posizione elevata, era costituita soltanto da una valvola di ritegno che evidentemente si era inceppata provocando il ritorno dell’acqua, prima stagnante nella vasca posta molto in alto, nella rete dell’acquedotto che si sviluppava ad una quota molto più bassa. L’immissione nelle condotte stradali delle acque impregnate di solfato di rame e di acqua quasi sempre stagnante nella vasca che non era affatto assoggettata a pulizie periodiche, era stata senz’altro l’artefice dell’inquinamento di una ristretta porzione dell’acquedotto con il conseguente insorgere del tifo.
A quel punto il tecnico fu costretto ad effettuare un attento controllo della situazione presso l’azienda responsabile dello spiacevole evento.
ILLEGALITA’ DI UTILIZZAZIONE DELL’ACQUEDOTTO
Ben presto constatò l’illegalità del sistema di approvvigionamento e che la valvola di ritegno era inceppata e che quindi non impediva il ritorno dell’acqua nella rete dell’acquedotto.
Esattamente come svelato da Artemisio.
L’ACCERTAMENTO DEL COLPEVOLE
A tali accertamenti seguirono una serie di ammende che qui è inutile riportare.
Il racconto, che riporta un fatto realmente accaduto, è costellato da comportamenti sbagliati e superficiali che potevano avere conseguenze molto più gravi.
Tutto iniziò con la ditta fornitrice che fornì acido muriatico anziché l’innocua varechina; seguì l’addetto delle poste che diffuse notizie riservate. Il vignaiolo, unico, vero responsabile dell’inquinamento, per aver costruito un collegamento idraulico espressamente proibito, ma anche il tecnico dell’acquedotto che escluse categoricamente che l’acquedotto non aveva alcun inquinamento, infine l’Ente pubblico che doveva verificare la qualità dell’acqua del sistema idropotabile e che non si accorse dell’inquinamento in atto.
A fronte di questa sfilza di persone “allegre e superficiali” risalta la figura di Artemisio che in breve tempo scopre la vera causa dell’incresciosa vicenda.
La conclusione è evidente: almeno nello svolgere un lavoro dal quale dipende la salute pubblica, bisogna essere assolutamente rigorosi nel rispettare le leggi vigenti, e farlo con scrupolo, cioè con il massimo impegno e correttezza