Introduzione
La pandemia sta mortificando il mondo e costringe le persone a rimanere isolate nelle proprie abitazioni. Questa prigionia sviluppa nuove sensazioni in ognuno di noi e ci offre l’occasione di ripensare a cose avvenute in tempi lontani e da sempre sepolte in angoli polverosi della memoria. Almeno a me fa questo effetto!
Il tempo forzatamente trascorso entro le quattro mura di casa, ci induce inoltre a desiderare cose assurde come quello di augurarci che le giornate e i mesi trascorrano velocemente. In altre parole, vorremmo bruciare in tutta fretta quel tempo che costituisce il capitale più prezioso che abbiamo avuto in dono con la nascita.
Quanto esso sia prezioso, lo capisce soprattutto una persona che galoppa verso la novantina.
Sono nato nel X anno dell’era fascista, in un paesotto della pedemontana veneta, sulla riva destra del Piave; frequentavo le scuole medie quando fu invaso dalla ferocia tedesca. Contribuii al boom post bellico nella costruzione di dighe in giro per l’Italia. Già adulto e maturo, guardai con curiosità e vaga speranza il frenetico “68”, disgraziatamente degenerato nelle Brigate Rosse, soffocato dalle stragi fasciste e dalla conseguente restaurazione che assegnò troppo potere alla finanza e alle banche, le cui stolte speculazioni sconvolsero gli equilibri sociali e, allorché manifestarono la loro fragilità, fu crisi profonda per il così detto ceto medio. Da qualche anno vedovo, trascorro le lunghe giornate di lock down a “rivivere” la compagnia di mia moglie e quella dei due figli, a rimuginare le numerose soddisfazioni ricevute dall’attività lavorativa svolta sempre con grande passione, ma anche sugli errori commessi, sugli amici scomparsi e i tanti bei momenti vissuti in loro compagnia .
È noto quanto l’uomo abbia fatto di tutto per allungare la vita, iniziando a costruirsi un’abitazione che dalla grotta naturale dei primi uomini, un po’ alla volta è diventata per molti l’attuale casa confortevole. Poi il cibo, che dal primitivo nutrirsi di cacciagione è passato all’allevamento, all’agricoltura e al vero e proprio culto della dieta. Per non parlare infine dell’acqua corrente e della attenta igiene di cui godiamo con grande conforto e comodità, e degli strepitosi progressi della medicina e della chirurgia. Tutto ciò ha allungato notevolmente la durata media della vita umana! E io, nell’attuale situazione di sofferta solitudine, sono assurdamente indotto perfino a rinunciare a una porzione del poco tempo che ho ancora a disposizione, pur di riconquistare la libertà!
In queste giornate grigie, anche quando splende il sole, svolgo un’attività che occupa gran parte del mio tempo, ribadisco, sempre preziosissimo. E’ quella di fantasticare su un futuro che magari non si realizzerà mai, e ricordare le confidenze di amici cari, gli incontri importanti, le persone scomparse di cui sento forte la mancanza: insomma, rievocare il lungo e, per certi versi, avventuroso passato.
La sterminata serie di pensieri che affollano la mente, costituisce un variegato bagaglio che voglio svelare via via che si manifesta. Sono tante le immagini che si susseguono ininterrottamente, del tutto slegate tra loro, perché non hanno alcun nesso che le colleghi. Un argomento che mi torna spesso in mente è quello dei giochi che facevamo da ragazzi. Allora, noi giovani non disponevamo delle numerose opportunità che godono oggi i ragazzi, a cominciare dal PC e dalle sue infinite possibilità, per finire con gli sport, come il tennis, lo sci, ecc.
I nostri giochi erano semplici ma divertentissimi, forse di più di quelli odierni.
Bepi e la fine de “Il gioco senza fine”
Sono tantissimi i giochi che ricordo con tanta nostalgia ma, tra tutti quello che ho in mente più spesso è quello che avevo battezzato “gioco senza fine” perché davvero non finiva mai. Oggi, a quel gioco dovrei cambiare nome perché anch’esso si è concluso.
Si trattava di questo.
Io e il mio amico Bepi, quando ci dividevamo per tornare alle nostre abitazioni, per risultarne vincitore, uno di noi due doveva pronunciare per ultimo la parola “trec”. La cosa non era mai di semplice soluzione perché anche da lontano entrambi si continuava a salutarci ripetendo “trec”. Pertanto, era impossibile stabilire con certezza chi fosse il vincitore.
Quando tornavo al paese e lo trovavo al bar dove giocava a carte, anche dopo oltre settant’anni, lo salutavo ancora con “trec”, ed uscendo dal bar ripetevo il verso, richiudendo velocemente la porta prima che facesse in tempo a ribattere. Le ultime volte però Bepi si alzava dal tavolo da gioco e usciva per urlarmi la famosa parolina.
In conclusione, come dice il titolo, il gioco era senza fine perché più ci si allontanava, meno ci sentivamo ….
Poi purtroppo accadde l’inevitabile che pose fine al nostro gioco. Bepi, a 85 anni se ne andò. Mentre lo accompagnai a piedi verso la sua ultima dimora, pensavo che avrei avuto la vittoria in pugno perché bastava che avessi detto “trec”, ma sarebbe stata una vittoria da vile e vi rinunciai. Io spero che mi abbia capito quando gli sussurrai: “Bepi, ti dichiaro vincitore. Potrei dire la nostra parolina, ma credimi, non lo faccio ora, né lo farò mai più.”
Il povero Guido
Un altro importante ricordo riguarda Guido, un mio coetaneo, particolare per i suoi atteggiamenti semplici e spontanei e privi di qualsiasi forma di finzione o interesse personale, poiché Guido era rimasto immaturo, come un bambino di 4 anni.
Ricordo un episodio che lo conferma.
Era il giorno di Pasqua e quella volta, usciti da messa, noi giovani ci siamo messi a far rotolare le uova di Pasqua colorate su un gioco chiamato “il roccolo” costituito da una grande cerchio di botte in ferro appoggiato per terra e che delimitava il piano di gioco inclinato a forma di superficie sabbiosa circolare e ben liscia ed inclinata rispetto al piano. Bisognava far scendere il proprio uovo da un coppo che ne formava la pista di spinta. Chi con il proprio uovo riusciva a toccarne un altro, vinceva quello colpito. Attorno al piano inclinato assistevano molti ragazzi, compreso Guido. Bisogna sapere che egli aveva una grande passione per il coltello ricurvo, richiudibile sul manico, in dialetto chiamato “britola”. Guido lo portava sempre con sé per intagliare dei legnetti o per mangiare un frutto o per altre piccole necessità. Sapendo quanto gli piacesse mostrarla, io lo avvicinai e gli chiesi di farmela vedere. Egli mise immediatamente la mano in tasca per tirarla fuori ma si accorse di averla dimenticata a casa. Guido, addoloratissimo per questa mancanza, pronunciò le seguenti parole: la Pasqua senza la britola non è più Pasqua. E partì a piedi per tornare a casa sua che si trovava in montagna a ben cinque chilometri di distanza. Lo fece senza aspettare un solo attimo, pur di rimettersi in tasca l’amata britola.
Mia moglie, Giuseppina
Ero sovrappensiero, con la mente sgombra da ogni consapevole fantasia, quando all’improvviso mi apparve il ricordo dell’eccezionale creatura che è stata mia moglie. Era un’autentica fucina d’innumerevoli avvenimenti e di originali ragionamenti, tutti semplici, ma interessanti e degni d’essere ricordati. Aveva una caratteristica molto particolare e insolita che consisteva nella forte curiosità di conoscere la mentalità, i caratteri e le abitudini delle più disparate persone. Racconto un episodio che dimostra il suo intenso interesse per il “nuovo e il diverso”.
Quand’ero giovane, la Società per cui lavoravo, spesso mi incaricava di controllare l’andamento di nuovi lavori lontani dalla nostra sede e talvolta dovevo fermarmici almeno un paio di giorni. Spesso ne approfittavo per aggiungere un giorno di ferie, in modo di andarci con mia moglie e, in quell’ultimo giorno, visitare con lei le bellezze del posto. Una volta eravamo in provincia di Viterbo, precisamente a Civita Castellana, un centro storico con molte attrazioni turistiche. Mentre io ero impegnato nel lavoro, mia moglie faceva le visite che tanto desiderava e per le quali lei aveva una spiccata predilezione. Un giorno, quando ci incontrammo per il pranzo, la trovai intenta a chiacchierare con una di quelle signorine che stava esercitando il mestiere più vecchio del mondo, cioè con una prostituta. Il fatto che si trovasse in compagnia di un personaggio così insolito, non mi ha affatto meravigliato perché sapevo quant’era grande la sua curiosità di conoscere il pensiero e la vita delle più svariate persone, compreso quella delle prostitute. Come mi videro, si salutarono con due baci sulle guance. Ma l’ultima frase della “signorina” rivolta a mia moglie fu: “Giuseppina, sei una persona straordinaria, però una cosa te la devo dire, dovresti vestire un po’ meglio” e, facendo con la mano un gesto eloquente, “guarda me!” Inutile spiegare come sono vestite quelle ragazze durante il loro lavoro: dirò soltanto che in quel caso i seni erano ben esposti e la minigonna rossa era semplicemente vertiginosa.
Più tardi mia moglie mi condusse al cimitero della cittadina dove c’era, stranamente, un binario lungo una cinquantina di metri e una vecchia locomotiva a vapore. Non ho mai capito cosa ci facesse una locomotiva in un cimitero. L’unica ipotesi che riuscimmo a formulare fu questa: forse voleva ammonire che coloro che si trovavano in quel posto, avevano iniziato il viaggio su un binario lungo, lungo…
La notte dormimmo in un albergo appena fuori Civita. Io non riuscivo ad addormentarmi perché non vedevo una convincente soluzione al problema di lavoro che mi avevano assegnato. Ad un certo punto, erano forse le tre del mattino, mi è venuta l’ispirazione. Immediatamente, accesa la luce, distesi sul pavimento i disegni uno a fianco all’altro per fissare l’idea che mi era arrivata. Mia moglie si svegliò e, vedendomi inginocchiato per terra con la matita in mano, mi chiese se fossi diventato matto, però si mise accanto a me e mi aiutò a perfezionare la soluzione.
Un altro fatterello aiuta a capire che tipo di donna era mia moglie. Eravamo in vacanza a Loano. Il giorno 27, mancavano pochi giorni, avrebbe compiuto gli anni. Non essendo sicuro di ricordarmelo, ho pensato di organizzare una sorpresa con la complicità della segretaria dell’albergo. Quel giorno, doveva far trovare in camera un bel mazzo di fiori con il mio biglietto di auguri. Concordato il piano, mi sono messo il cuore in pace e non ci ho pensato più. Arrivato il 27, andammo a fare colazione nella mansarda, pensando alla bella sorpresa che l’aspettava quando saremmo rientrati in camera. Invece, alla vista dello stupendo mazzo di fiori, mia moglie andò su tutte le furie: “Ecco, dopo quarant’anni che siamo assieme, tu non hai ancora capito che a me piacciono le cose semplici ma fatte col cuore; è troppo comodo ordinare a qualcuno di procurare un mazzo di fiori. Io avrei preferito che tu andassi di persona a comprare un solo fiorellino da quattro soldi, ma che tu lo avessi fatto di persona, col cuore. Ecco!”
Questa delusione potevo risparmiarmela perché mi avrà ripetuto almeno un milione di volte che soffriva per i fiori recisi e che ammirava solo le cose semplici e minute ma fatte di persona! Tenendo presente che Loano è vicinissima a S. Remo dove di fiori ne recidono a milioni, è mai possibile che solo quelli di Giuseppina soffrissero per il taglio? Per quanto mi risulta, noi maschi non sappiamo capire le donne : è un’impresa impossibile, sono troppo difficili! Non riescono ad uscire dal personaggio che si sono cucite addosso, nemmeno in un’occasione speciale come quella, davanti al bellissimo mazzo di fiori!
Ricordo un altro atteggiamento molto particolare di Giuseppina: è quello che aveva nei confronti della gelosia. Sosteneva che la gelosia non aveva ragione di esistere. Diceva: “I casi sono due. O mio marito ha l’amante ed io, prima d’essere gelosa, gli romperò la testa con il mattarello della pasta. Nel secondo caso mio marito non ha l’amante, nel qual caso non ho alcun motivo per essere gelosa”.
La gelosia di Rina
A proposito di gelosia, racconto ora un incredibile caso di gelosia di cui fui testimone e che non potrò mai dimenticare.
Rina era una signora che abitava con il marito, Guido, nell’appartamento vicino al nostro e tra le nostre famiglie era sorta una bella amicizia. Rina era di una gelosia impressionante. Potrei ricordare mille episodi assurdi di fatti normalissimi che Rina interpretava come tradimenti belli e buoni. Un giorno, convinta più del solito dell’avvenuto tradimento, colpì violentemente il marito in testa con il tacco di una scarpa. Lo portai all’ospedale per medicare la ferita e dovetti dichiarare che si era ferito con la sponda del camion, apertasi inavvertitamente.
A 50 anni Guido improvvisamente morì. Nostro malgrado, io e mia moglie non partecipammo al funerale, ma andammo a salutare la vedova dopo un mese, quando il marito era già sistemato in un loculo con nome, fotografia, date e vasetto portafiori regolarmente montati sul fronte di marmo.
Ci incontrammo davanti alla tomba silenziosi e meditativi, quando Rina tutta alterata, esplose dicendo: “Marcello non hai visto cosa hanno fatto?” Ed io: “Rina non vedo nulla. Sono qui assorto sulla disgrazia che ti è capitata, qui davanti c’è Guido con la sua bella fotografia, tu gli hai messo dei bei fiori freschi e a me sembra tutto a posto!” E lei: “Non vedi nulla? Ma non vedi che proprio sopra di Guido hanno messo una bella ragazza bionda? Ma proprio sopra di lui dovevano metterla?” Insomma, la sua gelosia sopravviveva anche alla morte, esattamente come quando Guido era vivo: incredibilmente allo stesso modo!
Grande, Aldo!
Rivedo il mio amico Aldo di Fiera di Primiero. Un vero amico col quale condividevo tutto: sia quando si parlava di lavoro, di vita privata, di sentimenti e anche su un problema che sentivamo tutti due in maniera profonda: l’aldilà, con tutte le sue domande che non potevano avere rispose certe.
Aldo era un formidabile appassionato della montagna. Un freddo giorno di fine dicembre, gli chiesi come avrebbe trascorso l’imminente notte di Capodanno ed in particolare se anch’egli, come la maggioranza delle persone, pensasse di trascorrerla cenando in compagnia di amici oppure facendo un bel viaggio con la moglie, magari una crociera o in quale altro modo. La sua risposta fu immediata, perché quello che intendeva ripetere l’aveva già sperimentato più volte e sempre con un esito straordinariamente positivo. Ecco il suo racconto.
“La sera dell’ultimo giorno dell’anno io parto per tempo in modo da raggiungere la meta prefissata prima dello scoccare della mezzanotte. Solo, assolutamente solo, risalgo un versante delle pale di S. Martino fino ad arrivare ad una quota dove sia possibile ammirare il panorama dei paesi attorno a Fiera e dove ci sia tanta bella neve farinosa. Nella neve ricavo un comodo giaciglio dove mi adagio e poi ricopro il corpo con la stessa neve soffice che mi tiene bello caldo, tengo solo la testa fuori, e aspetto il momento magico della mezzanotte. È allora che si verifica il miracolo che mi rende enormemente felice mentre sto li, solo, immobile, immerso nel più assoluto silenzio. Ad un certo punto mi raggiunge un lontano suono di campane che annunciano puntuali l’arrivo del nuovo anno. Ecco, in quel momento provo la felicità, ma quella vera, incontenibile, e con il pensiero volo in alto e ringrazio il Cielo di tutto quello che mi ha concesso durante l’anno appena concluso”.
Poco tempo dopo quell’incontro, quella stessa montagna che egli amava tanto, si è presa la sua vita durante una scalata. Amo pensare che quella sia stata la più bella fine che Aldo abbia immaginato per se stesso: restare per sempre abbracciato alla sua montagna.
Quella montagna che, con il suo silenzio, gli ha fatto conoscere una dimensione colma di Beatitudine.
La notizia della sua scomparsa mi commosse profondamente.
Il Silenzio è un amico prezioso
Ripenso spesso all’amico Aldo e alle sue ricerche solitarie nella notte di San Silvestro. Ma alle volte il pensiero volge in forme diverse e strane, come quando considero che il contrario del silenzio è il rumore e il suono. Molte volte e mi sorge spontanea questa curiosità: “Com’è possibile che ogni oggetto faccia un rumore diverso da ogni altro?”. Se cade a terra un batuffolo di cotone non si ode nulla, se invece cade una moneta o un bicchiere si avvertono i caratteristici rumori che fanno riconoscere facilmente i diversi oggetti o quantomeno il materiale con cui sono composti. Inoltre, che l’oggetto cada sul pavimento di marmo o sul tappeto, non è la stessa cosa perché il suono cambia completamente. Ma perché? La mia risposta è: “Chi ha “organizzato” l’universo lo ha fatto nella maniera più meravigliosa che si potesse immaginare”. E da questa banale, forse infantile considerazione, passavo a quella sul big bang, l’esplosione ritenuta dalla scienza all’origine del creato e al caos primordiale che ne derivò a cui seguì una lenta e ininterrotta evoluzione che, in un numero inimmaginabile di anni, “preparò” la terra bellissima come noi ora la vediamo.
Ci sono suoni meravigliosi offerti dalla natura come lo stormir delle fronde, l’eterno sciacquio dell’onda sulle spiagge e il canto degli uccelli, e quelli creati dall’uomo per il proprio piacere come quello del violino, del pianoforte, ecc.
Molti sono i suoni che parlano direttamente al cuore!
Ma alla fine delle mie sgangherate fantasie riguardo al rumore e all’infinita varietà dei suoni, tornavo sempre a pensare ad Aldo e alla sua straordinaria esperienza in montagna, perché nell’immenso silenzio che lui cercava in assoluta solitudine, sotto il cielo stellato, sperimentava lo stato mentale più straordinario che la Natura possa offrire all’uomo: il “contatto” con l’Infinito.
Nessun suono, nessuna musica nemmeno la più sublime, può “comunicare” quanto il silenzio.
Il silenzio è la porta dell’estasi e l’estasi è la porta dell’Infinito.
Aldo, amico caro, quanto mi sei stato prezioso! Quella tua confidenza è stata come un raggio di sole che ha illuminato la mia vita trascorsa, e molti eventi ora, grazie a te, li vedo collegati da una misteriosa e miracolosa Presenza protettrice.
Gli eventi fortunosi
A questo punto, a proposito di miracoli, devo descrivere al lettore alcuni eventi che mi sono capitati, il cui ricordo, rinnova in me un certo turbamento e immancabilmente mi ripropone una domanda fondamentale: “Sono stato davvero salvato da dei semplici “colpi di fortuna” o si trattò di qualcos’altro?”
Ecco il primo, incredibile fatto. Eravamo un gruppo di ragazzini molto piccoli e quel giorno c’era anche mio fratellino che ha cinque anni meno di me. Tutti assieme volevamo chiudere un grande e pesante cancello in ferro, però non ci eravamo accorti che era solo appoggiato al muro e fuori dai cardini che avrebbero dovuto sostenerlo. Quando cominciammo a spostarlo, il pesante cancello si rovesciò verso terra proprio sopra il mio fratellino. Il cancello era formato da robuste sbarre disposte in diagonale e una fitta rete che impediva il passaggio di eventuali intrusi nella proprietà. La rete aveva un buco circolare di una trentina di centimetri di diametro. Quando il cancello cadde, il mio fratellino si trovava esattamente in corrispondenza del foro nella rete. Fortunatamente era in piedi e il cancello percorse miracolosamente tutto il suo corpo e lo sfiorò senza fargli nemmeno un graffio. Allibito e incredulo, guardavo il cancello che, in tutta la sua minacciosa grandezza e pesantezza, era disteso a terra attorno a lui. Non credevo alla scena che pur avevo davanti, perché era “impossibile”: non solo era stato risparmiato dalle sbarre, ma il buco della rete lo aveva percorso esternamente senza toccarlo! Una scena da brivido.
Qualche anno dopo accadde un’altra “fortunata coincidenza”.
Tornavo da Feltre assieme a degli amici miei coetanei, tutti in bicicletta. Allora avevo una bicicletta con i cerchioni in legno. Il mio amico Bepi (sempre lui) invece di correre in linea retta come tutti, si divertiva a procedere facendo continui zig-zag. Ad un certo punto, per errore, venne a sbattere contro i raggi della mia ruota anteriore provocando la rottura del cerchione. A fianco della strada c’era un profondo fosso pieno d’acqua nel quale io, in seguito all’improvviso urto, sarei caduto, se proprio in quel punto, non ci fosse stato un ponticello di legno largo non più di un metro che attraversava il fosso. Fui violentemente sospinto sul provvidenziale ponticello, senza finire nel fosso e senza nemmeno cadere a terra. Riuscii a rimanere a cavalcioni della bicicletta, a quel punto inutilizzabile.
Ricordo un altro fatto miracolosamente risoltosi senza conseguenze. Un giorno, in motocicletta, stavo andando a Valdobbiadene con un amico di Vas. Correvo dietro un camion che trasportava lunghi pali appuntiti che sporgevano dietro la sponda del cassone per un paio di metri. Arrivati in prossimità della salita di S. Vito, sempre dietro il camion, sentimmo una ragazza che, in piedi sul marciapiede sinistro, chiamava ad alta voce. Noi, interessati giovanotti, pensando che si rivolgesse a noi, ci siamo girati entrambi verso di lei. Invece la ragazza aveva chiamato il conduttore del camion che bloccò il mezzo con una brusca frenata. Quando rigirai la testa per guardare davanti a me, ebbi l’impressione che quei pali dalle punte minacciose mi venissero incontro, mentre in realtà ero io che mi avvicinavo ad esse. In una situazione del genere la cosa più probabile che sarebbe potuta accadere, era quella di andare a ferirmi mortalmente contro la punta di un palo. Invece ancora una volta, “fortuna?” volle che la sequenza dei pali non fosse distribuita uniformemente su tutta la larghezza del cassone, ma presentasse nella parte centrale, proprio davanti a me, un intervallo vuoto dentro il quale mi infilai fino ad andare a sbattere sulla sponda, senza troppe conseguenze, nonostante nel frattempo avessi disperatamente frenato con tutte le mie forze.
Devo ammettere che sono stato più volte fortunato, perché ogni volta mi sono salvato per un soffio. Quando ci ripenso mi vengono ancora i brividi, perché sono perfettamente consapevole che per un pelo (letteralmente!) ho evitato la tragedia.
Si è trattato ogni volta di fortuna o della benevolenza del caso? Non è logico, legittimo e perfino doveroso che mi chieda se non ci sia Qualcuno che mi ama e decide di proteggermi? Io rispondo di sì.
Allora sorge spontanea una domanda: “Chi devo ringraziare?”.
Un’altra grande fortuna, ma in questo caso so bene chi ringraziare, è stato come ho arricchito il quinquennio di studi con cui mi diplomai. Penso a mia madre con immensa riconoscenza e tanta ammirazione, perché volle, pretese ed ottenne da mio padre che continuassi a studiare fino “al pezzo di carta”, anziché seguirlo in falegnameria.
Ecco come trascorsi quegli anni, anni fondamentali per la mia formazione.
Ho frequentato la scuola per geometri a Treviso, la città più vicina con quel tipo di scuola. Lontano 50 chilometri da casa, sono stato ospitato, nei primi due anni e limitatamente al periodo scolastico, presso una prestigiosa famiglia del posto. Devo a questa circostanza se sono passato da una tipo di vita semplice e modesta, a conoscerne una dove regnava la cultura, il benessere, la passione, per l’arte e per i viaggi. In quella casa c’era la radio, cosa rara all’epoca, e perfino un pianoforte che il padrone di casa suonava regolarmente. Ricordo ancora oggi i racconti del fratello della signora, pilota dell’Alitalia che quando tornava in Italia, soggiornava anch’egli con noi e ci raccontava le meraviglie che vedeva in giro per il mondo.
In quei due anni ho scoperto l’esistenza un altro stile di vita, assai diverso da quello da me conosciuto, pur sempre dignitoso e rispettabilissimo, ma al confronto, terribilmente limitato e privo di stimoli, come quello offerto da un piccolo paese di campagna, dov’ero nato e cresciuto.
Questa straordinaria esperienza non è stata cosa da poco. Al contrario, mi ha fatto conoscere un’infinità di cose, molte delle quali, col passar degli anni, ho desiderato approfondire.
Nella mia gioventù non ho avuto soltanto questa fortuna. Dai quindici anni e per ben tre anni ho trascorso fantastiche vacanze estive nientepopodimeno che a casa del noto architetto Carlo Scarpa, perché ero coetaneo e grande amico di suo figlio Tobia che mi volle con sé, e che in seguito sarebbe diventato anche lui un affermato professionista. Nel corso di quei favolosi mesi, non solo ho vissuto in un ambiente di altissimo livello, ma il grande Scarpa, artista geniale, ci portava con sé in luoghi interessantissimi dove lo richiedeva il lavoro, come alla mostra del cinema al Lido di Venezia dove seguiva l’allestimento di un suo padiglione, o nelle vetrerie di Murano per verificare la realizzazione di oggetti disegnati da lui. Ascoltavo quasi ogni giorno interessanti dialoghi con altri artisti che Scarpa incontrava nella grande sala della sua abitazione in Rio Marin a Venezia, dove lavorava.
Da questa eccezionale esperienza non è che abbia imparato chissà che cosa, ma quello che fu importante per me è stato capire che il mondo poteva offrire una miriade di opportunità che mai avrei immaginato. Insomma, i contatti descritti, le nozioni assorbite e gli esempi vissuti in prima persona in una città come Venezia, pregna di arte e di storia, mi hanno trasformato: avevo “realizzato” che oltre la verde collina che limita e soffoca il mio paese d’origine, mi aspettava un mondo affascinante e seducente al quale non potevo rinunciare.
Quella che ritengo la fortuna più grande è stata quella che , nei diversi lavori da mè svolti in qualità di dipendente di professionisti o di affermate società di costruttori di grandi opere tra le quali primeggiano gli impianti idroelettrici, sempre in quesì casi io, evitando con caparbia tutti i lavori banali, sono riuscito ad entrare con incarichi importanti e soprattutto adatti alla mia professionalità e passione, in attività molito interessanti, dove non solo avevo modo di imparare eccelse modalità di lavoro ma anche di darmi da fare per andare oltre ed approfondire i metodi spesso utilizzandone alcuni di mia creazione. Ecco questa è stata la fortuna più grande che ha interessato la mia persona e che mi ha dato le giù grandi soddisfazioni.
Alla fine io non resto in debito con nessuno di quanto ho avuto?
Dopo aver messo infila i fatti e le circostanze della mia vita, sento prepotente il desiderio di riflettere, e possibilmente di rispondere alla domanda lasciata in sospeso: “Chi devo ringraziare?”
Non l’ho mai ammesso, ma in qualità di tecnico incallito e razionale, empirico e pragmatico, confortato per un’intera vita nel veder trasformarsi idee, progetti formule e calcoli in solide dighe canali e condutture, faccio fatica a convincermi dell’esistenza di ciò che non vedo e che non può essere dimostrato. Eppure…
Eppure, rivivendo con la memoria i miei trascorsi e rileggendo gli eventi sopra esposti, emerge chiaramente che Qualcuno mi vuol bene e trapela chiaramente che io ci credo, perché troppe sono state le storie che “dovevano” finire tragicamente.
E Aldo, con la sua ricerca in montagna, mi ha fatto capire che la sensazione più esaltante si manifesta solo nel più assoluto silenzio. Sembra quasi che, quando la mente si predispone all’ascolto, l’Infinito si riveli.
Mi ricordo che un mio stimato amico mi raccontava che Dio non è il vecchio barbuto che Michelangelo dipinge nella cappella Sistina, ma è Amore, solamente Amore, Immenso Amore. Mi ricordo che spiegava che l’uomo è immerso nella dualità, cioè oscilla continuamente tra il bene e il male, tra il donare e il pretendere, tra le aspirazioni dello spirito e le tra l’entusiasmo e la depressione, ecc., mentre Dio è Uno, nient’altro che Amore, infinito Amore. e di sé impregna tutto il creato, non è riservato solo al genere umano, ma anche le creature, per noi, le più insignificanti come il granello di sabbia, il filo d’erba e la formica.
Mi diceva che secondo il pensiero orientale, ogni persona custodisce dentro di sé una monade che descrive come una scintilla divina, una particella infinitesimale dell’infinito Amore e che agisce solo per tornare alla Fonte che l’ha originata. Essa non è altro che “il maestro interiore”, ma per ascoltarlo è indispensabile fare come Aldo, quando, nel silenzio della montagna, si predispone all’ascolto dell’Infinito che non dimora nel cielo stellato, ma nell’intimo, nel cuore di ciascuno di noi.